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NEL SEGNO DELL’ESPRESSIONISMO

La pittura di Enrico Gambardella

 

di Rosario Pinto

 

Nel 1963, in occasione del ventesimo anniversario dell’evento storico delle “Quattro Giornate di Napoli”, fu ordinata da Piero Girace una mostra di opere d’arte che si svolse a Palazzo Reale.

Tale occasione espositiva fu caratterizzata da una ampia partecipazione di artisti, tra i quali ricordiamo Raffaele Lippi, Armando De Stefano, Rosario Mazzella, Rosaria Matarese, Mario Carotenuto e fu, soprattutto, segnata dalla affermazione indiscussa di una linea espressionistica napoletana che, mai come allora, apparve piena e convincente, qualificando in modo organico e coerente l’equilibrio di una mostra che non aveva imposto agli artisti alcun tipo di pregiudiziale orientamento stilistico.

In realtà, certamente, la pregnanza stessa del suggerimento tematico costituiva un’importante dirimente e l’addensamento contenutistico non poteva non far sentire il suo peso decisivo. Ma ciò che intriga particolarmente in questo importante episodio creativo della vita artistica napoletana di quegli anni è il prodursi, quasi per partenogenesi, di questa forte e convincente sensibilità espressionistica che distingue e qualifica complessivamente ed organicamente l’evento espositivo di cui si discute.

In questa occasione Enrico Gambardella presenta una propria opera, Sigla G 5, un lavoro di grandi dimensioni al cui interno l’artista dispone le masse lungo gli assi di una croce ideale, con la resa di un concorso verso il centro delle masse. Le figure sono caratterizzate da una marcatura distinta dei contorni dei profili, mentre intensi colpi di luce vanno a segnare l’evidenziazione dei piani ed a moltiplicare l’effetto di fremente energia che si agita, compressa, in una scena che appare sordamente silenziosa.

L’ambientazione, sullo sfondo, è quella di un’architettura appena accennata nei suoi tratti, l’icona, potremmo dire, d’una città che partecipa, zittita e mortificata, al rito d’una violenza che si svolge nel segno della prevaricazione e dell’ingiustizia.

Gambardella, nel 1963, ha trentasette anni: è sostanzialmente alla metà del suo stesso percorso di vita e questo suo lavoro offre testimonianza d’una scelta d’intervento creativo, quella espressionistica, che non è qui delibata semplicemente nel contesto d’un’occasione tematica che, quasi naturaliter, avrebbe suggerito un tale abbrivio stilistico.

D’altronde, ben sappiamo che un orientamento espressionistico si svolge su due fronti: quello ‘stilistico’, praticato dagli artisti di area mittel-nord-europea (e da qualche italiano, come Viani o Catelli) nei decenni tra le due guerre mondiali, e quello ‘categoriale’ che costituisce una costante storica in relazione all’impegno creativo mostrato da tutti gli artisti che, nel corso dei secoli, hanno privilegiato la marcatura segnica e timbrica unitamente con l’addensamento contenutistico.

Di fatto, Gambardella non giunge in modo sprovveduto all’appuntamento del ’63, avendo egli già da tempo prescelto proprio la via dell’opzione espressionistica, curando, nelle sue opere, non solo a non dismettere mai l’impegno contenutistico, ma anche a caratterizzarne il profilo compositivo di un segno imprimente e di un contrasto timbrico ben evidenziato nel quadro di un’adesione sicuramente accorta e ponderata alla dimensione ‘categoriale’ della linea espressionistica che, nella pittura napoletana, aveva trovato anche altre figure d’interpreti a partire, ad esempio, da Ettore Cosomati o dallo stesso Pansini, raccogliendo – per altra via, ben s’intende – l’insegnamento (forse più sul piano etico che non necessariamente su quello estetico) di De Gregorio e dello stesso Cammarano[1].

Carlo Barbieri, d’altronde, qualche anno prima, nel 1960, in occasione d’una mostra del Nostro a Nizza[2], aveva già messo in evidenza il tratto espressionistico del pittore, sottolineandone, peraltro, una tendenza al surreale che non ritroveremo più, tuttavia,  nell’opera di cui abbiamo discusso un po’ prima, presentata nel contesto della mostra dedicata alla celebrazione della memoria delle ‘Quattro Giornate di Napoli’.

Sostiene, in proposito, Barbieri: “Un goût espressioniste mais transporté dans les éloignements mytiques d’un surréel, qui est presque le résidu poétique de la mémoire et de la fantasie”[3].

Un dato importante, nella pittura di Gambardella, è sempre stato quello del rapporto col vero. Barbieri, ad esempio, indica l’artista sempre “fidèle à sa propre vocation de coloriste, et par coséquent loin soi de la pédanterie du vrai que de celle de l’art abstrait, et dans une indipendence agissante”[4].

L’osservazione stessa dell’opera in copertina del catalogo della mostra di Nizza, d’altronde, un Paesaggio, in cui compaiono delle sagome d’alberi pressoché scheletriti, dà contezza di tutte le caratteristiche di fondo che distinguono l’opera di Gambardella: una composizione articolata nei piani, un disegno insistentemente marcato e contornato, una concezione del vero che ha cura della rappresentazione ‘oggettiva’ più che ‘oggettuale’ delle cose, un colore sensibilmente timbrico, uno sfaldamento materico e disfratto nel ductus, particolarmente apprezzabile nelle campiture di primo piano.

La mostra di Nizza si rivela un autentico successo ed è anche la matrice logica dalla quale trarranno origine alcune sue importanti amicizie, come quelle con Vigny e con l’armeno Bedikian.

Nel ’63 Enrico Gambardella partecipa alla “Prima mostra di pittura – premio Coca-Cola” e l’impegno figurativo si profonde in una veduta paesaggistica che ritrae un Notturno di Torregaveta, ove la possibile deriva intimistica e romantica del tema figurativo viene facilmente evitata grazie ad un assetto compositivo a ‘lungo campo’, in cui su un orizzonte disperso nella lontananza della fuga prospettica s’affaccia un primo piano di stringente rilievo[5]. Ancor più marcatamente insistita è, poi, la definizione espressionistica d’un altro lavoro, Paesaggio romano, che Gambardella propone nel contesto della mostra “Pittori napoletani contemporanei” del 1962[6].

La stampa mostra d’apprezzare il lavoro di Gambardella in questa occasione espositiva ed, infatti, in una cronaca della mostra, viene osservato che “incisivo e ricco di colore è Enrico Gambardella ed i suoi colori di un grigio caldo servono ad affermare una personalità inconfondibile”[7].

L’esordio di Gambardella era stato certamente precoce e Libero Galdo, nel contesto d’una testimonianza sull’autore, ricorda che, negli anni Quaranta, aveva avuto l’opportunità di conoscere la famiglia Gambardella, al cui interno “l’adolescente Enrico manifestava una decisa propensione per la pittura”[8].

Enrico Gambardella aveva effettivamente cominciato a dipingere fin da giovanissimo, orientando le sue ricerche figurative sulla osservazione della realtà circostante e cercando di fornirne una cifra restituiva del dato oggettivo.

Del suo esordio pubblico è difficile indicare l’articolazione puntuale: soccorre, però, la memoria di varie mostre tra giovani universitari, che fanno seguito ad un fertile periodo formativo condotto sotto la guida di Manlio Giarrizzo.

Sono questi anche gli anni in cui il Nostro osserva con straordinario interesse  non solo le trasformazioni sociali della città di Napoli dell’immediato dopoguerra, ma anche quelle che si sviluppano in campo artistico, con l’innescarsi della dialettica tra ‘figurazione’ ed ‘astrazione’ e, più in generale, con l’affermarsi di una coscienza civile del ruolo dell’arte, come è quella che si propone all’interno, ad esempio, del ‘Gruppo Sud’.

Di fatto, ciò che importa sottolineare – e non a caso abbiamo individuato nella sua pittura dei primi anni Sessanta uno snodo fondamentale – è la capacità costruttiva con la quale Gambardella sa concepire l’impaginazione dell’opera. Al di là, insomma, delle differenze tematiche, ciò che s’impone è la larghezza di concezione dell’impianto compositivo, all’interno del quale trovano spazio e definizione gli accenti più robusti di un vigoroso sentire che anima dall’interno l’articolazione della composizione.

Né appare inutile ribadire che è proprio su tali basi che il Nostro muove la sua disamina intensamente vibratile del reale, fornendone quella lettura espressionistica che lo apparenta alla grande tradizione crisconiana, accostandolo, peraltro, a figure significative come quella di Mario Vittorio ed anche al milieu del ‘Gruppo Sud’.

Non a caso, d’altronde, la prima mostra personale di Enrico Gambardella si tiene alla galleria del “Blu di Prussia” nel 1955, quando l’artista è appena ventinovenne.

Seguiranno numerose altre esposizioni personali, tra le quali giova indicare quella del 1958 alla galleria “San Carlo” e quella dell’anno successivo, 1959, alla “Vetrina” di Napoli, che precede la mostra alla “Boutique d’art” di Nizza del 1960, già da noi precedentemente richiamata.

Proprio in occasione della mostra alla “San Carlo”, Alfredo Schettini, dalle colonne del “Corriere di Napoli” sottolinea il particolare interesse dell’esposizione di Gambardella: “Undici opere veramente apprezzabili pei forti contrasti d’impostazione realistica così nei paesaggi come nelle nature morte: alcune rese con un piglio risoluto che persuade”[9].

Importante occorrerà giudicare anche la mostra che egli aveva reso alla “Galleria Montenepoleone” di Milano nel 1962. In questa occasione Fortunata Colavero Starita, nel fornire un convincente profilo critico dell’artista, sottolinea in particolare: “La tormentata tensione spirituale, che si manifesta nelle macchie di colore vivo e, soprattutto, nei suoi cieli vigorosi, gli fa prediligere il paesaggio lucano od abruzzese, con le terre aspre e bruciate … Sarebbe superficiale dire, solo perché preferisce il paesaggio ed è un pittore napoletano, che egli segue la tematica tradizionale; Gambardella non è un vedutista, non solo perché gli manca ogni intento descrittivo, ma perché ogni spazio di terra da lui dipinto, vincolato e concluso in se stesso, si presenta, nella sua espressione, frutto di aderenza del soggetto all’oggetto”[10]. Come si può ben osservare, la Colavero Starita insiste sul tema dell’ “espressione, frutto di aderenza del soggetto all’oggetto” in un contesto compositivo in cui “manca ogni intento descrittivo”.

La dimensione vibratamente espressionistica di Gambardella trovava, così, una sua convinta accoglienza ed una organica definizione del profilo creativo nutrito di un saldo legame alle cose, di cui veniva restituita l’immagine non certo pedissequa ed oleografica del vero, ma il frutto, piuttosto, dell’impatto ‘oggettivo’ del reale sul ‘soggetto’ al di là di ogni mediazione edulcorante.

Significativa, nel contesto della mostra alla “Montenapoleone” è la presentazione di opere come Cristo Megaton o come alcuni straniati Paesaggi di periferie urbane, in cui emerge il dissidio violento tra una natura che ancora resiste, aggredita e tormentata nei suoi alberelli sempre più radi, all’impatto debordante delle sagome delle grandi cisterne dei depositi di prodotti petroliferi tra capannoni industriali e tralicci dell’alta tensione.

Non può stupire, alla luce delle osservazioni che abbiamo reso, che Gambardella poteva essere artista di facile accettazione nella realtà ambientale mittel-nordeuropea, ove, infatti, lo troviamo presente in numerose occasioni espositive, tra le quali ricordiamo quella alla “Burdeke” di Zurigo, nel 1960, cui seguiranno moltissime altre presenze all’estero, in Germania, in Francia, nel Principato di Monaco, nella stessa Svizzera ancora.

Gambardella, che, pure, nella descrizione che ne fornisce Libero Galdo appare personalità dal profilo dolce e conciliante, disponibile ed aperto all’amicizia ed alla convivialità spassionata, è comunque una personalità attenta e vigorosamente critica, pronta a diventare mordace quando, ad esempio, nel corso della sua collaborazione col “Tartufo” nei primi anni Cinquanta, disegna delle deliziose vignette satiriche, contrassegnate dalla sigla di “Gamen”, essa stessa significativamente intrigante col saper dare, da parte di Enrico Gambardella, alle lettere iniziali del suo nome e cognome quel suono latamente evocativo dell’Amen conclusivo delle preci devote.

E’ del 1964 la mostra che il Nostro rende alla galleria “San Giacomo” di Napoli. Aldo Angelini, dalle colonne de “Il Quotidiano”, osserva come la mostra alla “San Giacomo” costituisca, dopo due anni da quella alla “San Carlo” del 1962, una sorta di ritorno in città, dopo che “molta della sua attività pittorica l’aveva svolta fuori d’Italia o lontano da Napoli”. Prosegue, poi, Angelini sottolineando “le grandi qualità espressive” del Nostro ed additando il rilievo che assumono nelle sue opere i timbri cromatici descritti come “dei grigi violenti, dei rosso fuoco, degli amaranti, dei viola, dei verde smeraldo”[11].

Nell’occasione di tale mostra, peraltro, Gambardella sembra aver tratto vantaggio anche dai suggerimenti che, qualche anno prima, in occasione della mostra del 1958 alla “San Carlo”, gli aveva fornito Paolo Ricci dalle colonne de “L’Unità”, mostrando di apprezzare nel Nostro più che i grandi formati delle tele, “i dipinti in cui la visione è più diretta e non aspira a facili e convenzionali stilizzazioni. In questi casi – continua il critico – il colore assume una sonorità e un calore notevoli”[12].

Con il trascorrere degli anni, fino ai tempi più vicini in cui s’è poi conclusa la sua esistenza, l’artista non ha mai rinnegato le sue radici, né ha mai smesso di osservare la realtà con uno spirito di acuto indagatore e di intelligente interprete delle cose che lo circondavano.

In tale prospettiva, ad esempio, andrà valutata la sua attività fotografica, che gli ha consentito di avere un contatto più diretto con le cose, con gli oggetti, con la natura, con gli uomini.

Il suo spirito schivo e sensibile è stato il luogo privilegiato in cui ha saputo raccogliere e conservare giudizi ed emozioni, mostrandosi sempre riservato ed alieno da ogni forma di sovresposizione e di esibizionismo senza ragioni.

Ci riprendiamo a questo punto – e non a caso – ancora una volta alle parole dettate da Libero Galdo, che intervengono a fornire un giudizio sull’uomo, oltre che sull’artista, osservandone le peculiarità psicologiche e morali. “Nella sua mente la situazione artistica napoletana era chiarissima: conosceva le tendenze e gli interessi dei galleristi, come l’orientamento dei critici d’arte e poi conosceva tutta la platea dei pittori nostri conterranei che accettava: soltanto con i presuntuosi, che in questo settore purtroppo allignano, era estremamente polemico. I nostri incontri erano diventati una consuetudine, assieme alla sua pittura che aveva un carattere intellettualistico di un surreale sposato all’informale, con tinte piuttosto scure”[13].

Di fatto, nelle notazioni che fornisce l’intervento di Galdo, al di là delle osservazioni di carattere psicologico e morale, appare anche un’indicazione preziosa in punto critico: l’accenno, cioè, ad una componente ‘informale’ nella pittura di Gambardella.

Conviene, forse, coltivare tale suggerimento valutativo.

Ci sembra ragionevole, sul punto, osservare che ciò che Galdo definisce ‘informale’ sia, piuttosto, una propensione propria di Gambardella ad operare uno sfaldamento dei colori, operando un intervento diretto sulla materia pittorica fino a rendere il ductus particolarmente friabile e disfratto con un effetto finale che s’apparenta significativamente alla produzione della temperie creativa che era propria degli anni dell’immediato dopoguerra e che ancorava i suoi presupposti esemplaristici alla lezione dirimente della scuola di Notte.

Non a caso, per tali esiti creativi, che, piuttosto che costituire una specifica delibazione informale, ci sembra più utile ricondurre nell’ambito di un autonomo raggiungimento napoletano di resa pittorica apparentabile all’espressionismo astratto, in qualche nostra recente occasione di rimeditazione critica[14], abbiamo voluto vedere un fertile esponente nella figura dell’artista pugliese Michele Depalma, che, non senza ragioni di specifica prossimità, si colloca in modo diretto e specifico in connessione con la figura di Emilio Notte.

Orbene, messa in chiaro tale questione, che, a nostro giudizio, può valere a riaprire il dibattito critico sugli anni della fine della guerra e del decennio dei Cinquanta, riconsiderando altre componenti che intervengono a fornire con la propria opera ulteriori motivi d’interesse di studio e di riconsiderazione critico-storiografica, ci pare che il caso Gambardella si iscriva di diritto in tale temperie di cui coglie, probabilmente, con immediatezza il rilievo, dando, però, spazio esecutivo e di delibazione creativa solo con quel passare d’anni che lo conduce verso la fine del decennio, appunto, dei Cinquanta. Sono, in fondo, ascrivibili a tali matrici espressioniste-astratte le caratteristiche peculiari di quello stesso sfaldamento disfratto del colore che definisce le campiture di primo piano che abbiamo già provveduto ad additare nel dipinto di Paesaggio in copertina del catalogo della mostra di Nizza del ’60 e che qui ci pare utile richiamare per esplicitare con maggiore evidenza e compiutezza di pensiero la fondatezza di una rilevazione critica.

La osservazione critica di Galdo sull’accento ‘informale’ di Gambardella, così reinterpretata – come, sommessamente, suggeriamo che si debba fare – finisce col ricondurci – per altra via, evidentemente – ancora una volta a quella matrice espressionistica che costituisce l’alveo logico e naturale entro cui si compie e si articola tutta la vicenda creativa di Enrico Gambardella.

Un artista importante, certamente un testimone, uno di quegli artisti silenziosi e discreti di cui andiamo discorrendo anche in altre sedi, raccomandando che non se ne disperda la memoria. Un pezzo della cultura della nostra città, spesso ingrata e dimentica, pronta – e qui Enrico sarebbe d’accordo con noi – a premiare i mediocri dimenticando gli spiriti puri.



[1]  R. PINTO, La pittura napoletana del Novecento, Napoli 2002.

[2]  C. BARBIERI, Gambardella, Nice  1960.  La relativa mostra si svolse a Nizza presso “La Boutique d’art”.

[3]  Ibidem.

[4] Ibidem.

[5]  F. NICOLARDI, Prima mostra di pittura – premio Coca-Cola, Napoli 1963.

[6]  E. M. AVITABILE, Pittori napoletani contemporanei, Napoli 1962. (Catalogo della mostra presso La ‘Galleria internazionale’ di Parma).

[7]  S.i.n., Collettiva di pittori napoletani alla Galleria internazionale, in “Il Resto del Carlino” 24 feb. 1962.

[8]  L. GALDO, Ricordo di Enrico Gambardella, ms. Archivio Pinto 2004-2006.

[9]  A. SCHETTINI, Note d’arte, in “Corriere di Napoli”, 17 giu. 1958.

[10]  F. COLAVERO STARITA, Testo critico in catalogo per la mostra personale di Enrico Gambardella alla “Galleria Montenapoleone” di Milano, Milano 1962.

[11]  A. ANGELINI, Enrico Gambardella alla “Galleria San Giacomo”, in “Il Quotidiano”, 22 apr. 1964.

[12]  P. R. (PAOLO RICCI), Note d’arte, in “L’Unità”, 25 giu. 1958.

[13]  L. GALDO, Op. cit.

[14]  R. PINTO,  Un Sud ad alto rischio aniconico, in “Roma”, 20 mar. 2008.